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L'Università che vorrei
Testo

LORENZO BIANCHI CHIGNOLI, Studente

L’Università è un’istituzione affascinante. Orgogliosamente medievale nella propria storia e nei propri riti, traina lo sviluppo e punta il futuro, dirigendo il progresso tecnologico, scientifico e culturale. E soprattutto dagli anni ’60, apertasi alle masse, è anche laboratorio sociale: la tanto sognata repubblica delle lettere. Eppure, c’è ancora della strada da percorrere perché l’Università possa soddisfare la sua potenziale ed enorme ambizione di divenire il motore dell’integrazione sociale.

Dagli anni ’90, l’Italia ha visto un continuo aumento delle diseguaglianze. Siamo il paese con il più alto numero di NEET – giovani che non studiano, lavorano o cercano occupazione. Ancora, siamo terz’ultimi in Europa per percentuale di iscritti all’Università. Non potendosi insinuare che ci sia in Italia una innata avversione agli studi, devono essere altri ostacoli – sociali, economici, culturali – a fare la propria apparizione nella vita degli individui. Ed è tremendamente difficile individuare queste barriere nascoste che limitano subdolamente la mobilità sociale e l’espressione delle capacità individuali.

Al contrario, in passato, la classe sociale, il reddito e le conoscenze private decidevano esplicitamente le sorti dei singoli in termini di formazione e carriera. Solo con il tempo le capacità individuali sono state in grado di fare sempre più la differenza nella vita degli individui rispetto alla genealogia. Si è affermata l’idea fondamentale di premiare il merito: una speranzosa scommessa su quello che un individuo è disposto a fare per la società, pesato sulle sue capacità non meno che sulla sua determinazione, e inversamente agli ostacoli che l’hanno fino a quel punto trattenuto.

Eppure, il merito non è una proprietà privata, ancorché se ne parli come di una caratteristica individuale. Il merito è in larga parte un ideale normativo, non descrittivo. E le capacità individuali, ricevute in sorte alla nascita o maturate grazie alle cure dello Stato, devono sempre essere rimesse al servizio della comunità. Su questa costosa negligenza si fondano i ritardi nelle urgenze più improrogabili del nostro tempo: il cambiamento climatico, l’uguaglianza sociale, il progresso civile.

Insomma, non ci siamo ancora scrollati del tutto di dosso l’età dei privilegi, e – soprattutto – degli svantaggiati. Fare l’Università in Italia, oggi, non può più essere semplicemente la tappa provvisoria di una biografia, né un investimento in formazione per ambire a una vita da rentiers. Piuttosto, lo studio dev’essere una missione che si compie a beneficio di tutta la comunità: dei vicini e dei lontani, dei simili e dei diversi; in supporto ai decisori, ma sempre in aiuto degli ultimi e degli invisibili.

Il forte bisogno di un sapere reale si esprime nella crescente insoddisfazione verso idee astratte di studio e di ricerca, e ci traghetta verso un’Università dove il sapere acquisisce un senso solo quando ne beneficia il più ampio numero di persone. Liberandoci dal pregiudizio che ciò non possa valere per le discipline pure. Scrollandoci di dosso il fascino della cultura del salotto e della poltrona; dell’intellettuale eremitico, e forse in fondo vanaglorioso. Senza romanticismo, ma secondo realismo: chi mai può prendere a cuore l’universalismo, nella corsa al benessere, se non chi dedica la propria vita al sapere?

Allo IUSS sembrano essere tutti consapevoli di ricoprire un incarico per certi versi microscopico, ma parte di un epocale fine umanitario. La linguistica, il diritto, la filosofia della mente, le neuroscienze, sono la chiave con cui rimediare alle storture – sempre più dettagliate, ma sempre ugualmente decisive – di una piccola porzione di mondo. La ricerca è la nostra presa immediata su di esso, e la prova dell’impegno di tutti sulle vite di ciascuno.

Per un Allievo dello IUSS, infine, anche il finanziamento allo studio assume il valore di un’investitura. Esso è l’imprimatur di una Scuola e di uno Stato che ci affidano una missione da compiere, e ci chiedono di non essere delusi. Premiano il merito, ricordandoci che né reddito né estrazione sociale contano per diventare quello che vogliamo. Allo stesso tempo, però, ci rammentano che noi possediamo il merito, senza esserne proprietari.