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Le decisioni che vorrei

 

Con una frase divenuta poi aforisma, il chimico e fisico Jean Perrin, Nobel per la Fisica nel 1926, affermò che “Spiegare visibili complicati per mezzo di invisibili semplici” è quella forma di intelligenza intuitiva che guida il percorso scientifico. Un percorso che i ricercatori sanno essere costellato di costanti sforzi, solo talvolta ricompensati da successi che regalano il piacere della scoperta, la consapevolezza di aver espanso i confini della conoscenza, e la speranza negli effetti positivi di questo contributo. Volando molto più basso, occuparsi di “decisioni e rischio” nella propria attività di ricerca stimola a notare tanti “visibili complicati” nel flusso continuo di scelte fatte in prima persona o osservate negli altri, e a cercare di interpretarli alla luce degli “invisibili semplici” che psicologia, economia comportamentale e neuroscienze cognitive individuano in specifiche tendenze spontanee nel modo di prendere decisioni. Nel farlo mi capita di pensare che conoscere questi temi non è un antidoto sufficiente contro decisioni magari non completamente sbagliate ma certo non ottimali, perché prese d’impulso, o perché guidate dal tentativo di evitare le spiacevoli conseguenze dell’aver preso un rischio non ben calcolato, o dell’aver scelto di abbandonare la strada vecchia per provarne una nuova. Il più radicato di questi meccanismi protettivi è quello che ci spinge a sovrastimare le conseguenze negative di una scelta rispetto a quelle positive, e quindi a cercare di evitare perdite e fallimenti più che a ottenere guadagni e successi. Un ragionevole principio di precauzione, verrebbe da dire, almeno fino a quando non ci chiediamo quante opportunità future si perdono nel cercare di evitare perdite immediate, e cosa sia davvero un “fallimento”. Alcune settimane fa ho discusso questo tema con le allieve e gli allievi, ai quali ho chiesto un’opinione sul puro bilancio numerico tra successi e fallimenti, e tra pessimismo e ottimismo, nell’arco di una vita. 

 

La risposta era scritta nei loro volti, ma - spero - inquadrata alla luce del tema portante di quel corso, ossia la capacità di fare tesoro delle proprie esperienze, imparando sia a sfruttare gli esiti negativi di una scelta per migliorare le decisioni successive, sia a saper investire le energie necessarie per poter tradurre il pessimismo dell’intelligenza nell’ottimismo della volontà. Un “fallimento”, allora, diventa una preziosa informazione per quei circuiti cerebrali che ci aiutano ad apprendere dall’esperienza, e a fallire meglio. Come possiamo, allora, migliorare, sapendo che la complessità delle società contemporanee esclude implicitamente decisioni “facili” dalle quali possano derivare solo conseguenze positive immediate, se non per tutti anche solo per la maggioranza dei loro membri? Cosa contraddistingue le decisioni che vorremmo, da noi stessi e dai pochi che governano i destini di tanti, in un periodo nel quale sono ormai evidenti - a chi vuole vedere - le conseguenze di scelte sbagliate dalle quali non si è appreso abbastanza? Le risposte possibili sono tante, ma una le contiene tutte: una visione di lungo periodo, focalizzata su obiettivi chiari e raggiungibili purchè perseguiti con la giusta motivazione a investire, anche se al costo di qualche perdita nel breve periodo. Una risposta forse banale, ma che evidentemente non è facile tradurre in decisioni concrete. Chiediamoci allora, quanti sforzi sono costati, a tanti ricercatori, i progressi che oggi ci consentono di dare per scontati benessere e diritti. Eppure, è solo in un orizzonte temporale sufficientemente ampio, e non nella “veduta corta” che le cronache ci consegnano, che una percorso costellato da tanti piccoli fallimenti può condurre a pochi, ma grandi e rilevanti, successi.