Con questa pubblicazione, lo IUSS si racconta. Alcuni docenti e protagonisti della scuola hanno scelto di condividere qui una loro visione del futuro, una finestra sul mondo che ci attende, spalancata da chi ha scelto di vivere l’avventura della propria vita con un cannocchiale puntato su uno degli infiniti aspetti del sapere, quel sapere che ha come obiettivo il miglioramento della condizione umana. Come in un caleidoscopio, troverete in ogni pagina una visione diversa e, se sarete curiosi di approfondire, inquadrando il QR code, potrete leggere il resto della storia e fare conoscenza con chi l’ha scritta. Buona lettura!
Sarò in grado? Ci riuscirò?»
Te lo sarai chiesto tante volte davanti a una grande sfida. Avrai provato a mettere sul piatto della bilancia le abilità, le esperienze, ma forse più di tutto la fiducia nelle tue possibilità. Di fronte a un futuro sfuggente, avrai pensato a chi ti ha preceduto, ti sarai affidato allo sguardo delle persone che prima di te hanno avuto gli stessi dubbi e hanno rischiato. Hanno avuto fiducia. Non hanno preconfezionato alcuna soluzione. Hanno scommesso sulla buona riuscita di un progetto meritevole. A volte è andata bene. Altre volte meno. Ma da quell’errore hanno imparato che gli sbagli, i tentativi, gli esperimenti, le ipotesi animano il processo di ogni scoperta: nei laboratori, nelle aule universitarie, nella vita. Continuerai a chiedertelo sempre se riuscirai o meno. Non otterrai alcuna riposta in anticipo, ma potrai scoprirlo passo dopo passo, provando, sbagliando. Ci sarà un tempo per sognare, un altro per immaginare. Una stagione per mettere alla prova i desideri, per capire se siano possibili. Sarà difficilissimo rispondere in anticipo con assoluta certezza. E per questo non resterà che provarci, come testimonia chi ti ha preceduto. I docenti dello IUSS si raccontano per condividere con te il frutto della loro esperienza, per parlare di contaminazione e multidisciplinarità dei saperi, dei processi di scoperta e crescita attraverso cui costruire un mondo migliore. Oggi saranno loro a guidarti alla scoperta della tua strada!
LA SCUOLA IUSS A PAVIA
La Scuola Universitaria IUSS si caratterizza per tre elementi fondanti e solidali nessuno dei quali può essere veramente efficace senza gli altri, pur avendo nature e fini indipendenti. La visione sovra-disciplinare della realtà: le discipline sono fondamento e base metodologica dell’indagine della realtà ma non caratterizzano l’oggetto di studio e loro compito è fornire strumenti per la soluzione di problemi più che creare visioni generali alternative; la contiguità sostanziale tra didattica e ricerca che sposta necessariamente la prima verso i temi d’avanguardia nei quali i docenti della Scuola sono scelti tra i protagonisti in ambito internazionale; il rapporto di fiducia personale tra docenti e allievi in un ambiente di formazione, quello pavese, caratterizzato dalla presenza storica dell’Università di Pavia e dei collegi di merito. In questo senso la Scuola, che attinge, per i primi livelli di studio, al bacino selettivo di questo sistema, risponde alla missione originaria dell’istruzione superiore moderna che deve tra l’altro restituire alla società le risorse che la società le ha dedicato e deve fornire un’occasione unica di espressione e di governo a persone che altrimenti non potrebbero avere accesso a questi livelli. Presenza unica in Lombardia, la Scuola è aperta e frequentata da studentesse e studenti di tutto il Paese e, a livello dottorale, di tutto il mondo.
LA RIVOLUZIONE DELLE FONTI
ANDREA MORO Prorettore Vicario
“Comprendere non significa costruire da zero ma selezionare rispetto alla sovrabbondanza di strutture possibili quelle uniche sono compatibili con la realtà. Noi imitiamo la natura”
I veri cambiamenti culturali sono spesso impercettibili, molto lenti e rari. Esistono però dei casi nei quali all’improvviso tutto cambia davvero e in modo radicale: un esempio è stata l’invenzione della stampa. Nel giro di pochi anni, l’accesso al sapere si svincolò dalla produzione di testi singoli e le fonti disponibili si moltiplicarono in una quantità inimmaginabile rispetto alle epoche precedenti. Oggi, noi siamo testimoni oculari di un cambiamento di portata non minore di questo, l’influenza del quale ha portata ampia su tutto quello che riguarda il mondo della cultura, della ricerca e dell’educazione e, se l’analisi che presento è corretta, dell’intero tessuto sociale. Non è difficile cogliere questo cambio di paradigma: per la prima volta nella storia della nostra specie, non solo della civiltà occidentale, dunque, che spesso viene presa come riferimento assoluto, non è più la difficoltà a reperire informazioni che caratterizza un aspetto centrale della ricerca scientifica e più in generale della formazione ma quella di imparare a selezionare tra la massa di quelle accessibili quelle (poche) rilevanti. In un mondo connesso in rete, si passa cioè dall’arte di raccogliere a quella dello scartare. Se è vero che questa discontinuità nel progresso del sapere, che senza connotazioni negative gli epistemologi chiamerebbero, riferendosi alla sua etimologia, catastrofe, appare evidente a tutti, non è invece affatto immediato, almeno a chi scrive, riconoscere quali siano le sue conseguenze. Ce ne sono moltissime, sia sul piano tecnologico che sul piano politico ed etico, ma ce n’è una, forse più nascosta di altre, che vale la pena sottolineare in questa sede proprio perché riguarda entrambi i protagonisti della dinamica dell’apprendimento: docenti e discenti.
Le fonti vanno selezionate per almeno due motivi: primo, perché la lettura di tutte le fonti porterebbe via troppo tempo e troppe risorse rispetto alla parte propositiva dei progetti; secondo, perché non è mai di fatto possibile che tutte le fonti siano corrette e coerenti tra di loro. Il secondo aspetto, naturalmente, fa parte del ruolo canonico del ricercatore e consiste nell’obbligo di prendere posizione rispetto ai pareri precedenti, sia che si tratti di opposizioni che di condivisioni totali che di posizioni intermedie. Ma è il primo fattore, forse apparentemente banale, che in realtà forza il vero cambiamento. Se è vero che in presenza di fonti sterminate non ha senso leggere tutto prima di iniziare, allora c’è un solo modo per procedere: fidarsi di qualcuno che lo abbia in parte già fatto prima di noi.
Questo è il nuovo, inaspettato, impredicibile salto di paradigma sul piano sociale che la nuova situazione rispetto alle fonti ci impone. Se non vogliamo la paralisi e comunque vogliamo progredire, non possiamo non passare attraverso un atto di fiducia in persone che, per motivi diversi, hanno già fatto una parte del percorso di selezione. Il nuovo discente è colui che riconosce questa situazione e, in forza di una scelta esplicita (almeno a se stesso), libera, si affida cioè ad una persona che in quel momento si sostituisce letteralmente a lui nella scelta di chi ascoltare. Una figura che con termini certamente da aggiornare,
qualora venissero interpretati nella connotazione di genere, definiremmo un “maestro”.
Che il fattore umano, poi, emerga proprio dalle nuove condizioni di tipo tecnologico mi pare anch’esso un fatto davvero straordinario e inaspettato. Il passaggio dal raccogliere allo scartare non si fa da soli: deve passare attraverso una relazione umana di fiducia che influisce necessariamente sul progetto. Occorre essere espliciti e precisi.
La vera fiducia si ripone non in chi si pensa che faccia la scelta che auspichiamo ma in chi si pensa che agisca per il nostro bene, qualunque sia la scelta che farà. La fiducia è una delega in bianco al bene personale e, se è vero che molti la possono riconoscere in tanti ambiti della vita e in tantissime relazioni, trovarla intrecciata inscindibilmente al metodo scientifico è un fatto davvero sorprendente da non trascurare.
Un secondo effetto, forse meno evidente, è che l’aumentare del numero delle connessioni possibili tra le fonti facilita lo smantellamento di quel muro epistemologico che pur decisivo nel progresso, a partire dal Rinascimento, vale a dire la distinzione tra umanistico e scientifico, è diventato oggi un ingombro. Il nuovo Rinascimento si svilupperà solo dove si saprà cogliere una nuova lettura globale della realtà dove oggetti, fini e metodi non vengono rivendicati per ideologia o per autorità ma sono commisurati alla capacità di risolvere i nuovi problemi. In questo senso, oggi, il modello enciclopedico sembra essere molto più attinente alla ricerca di quanto non lo sia quello a comparti stagni delle discipline sulle quali, troppo spesso, si sono modellati in epoca recente gli steccati accademici.
Una nota in chiusura, altrettanto inaspettata: il modello del sapere basato sulla selezione tra le fonti è in realtà quello che più si avvicina ai modelli neurobiologici di apprendimento umano quelli che, a partire dalla rivoluzione sull’apprendimento del linguaggio proposta da Noam Chomsky nella seconda metà del XX secolo, hanno portato a capire che comprendere non significa costruire da zero ma selezionare rispetto alla sovrabbondanza di strutture possibili quelle uniche che sono compatibili con la realtà. Noi imitiamo la natura.
Scopri chi è il Prof. Andrea Moro
La Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia fonda da sempre la sua unicità e la sua filosofia di trasmissione del sapere sull’interazione tra discipline, linguaggi, persone e mondi. L’identità dello IUSS, ben rappresentata dal logo Nexus, è fatta di una rete di connessioni, relazioni tra persone, temi e problemi, che la Scuola riconosce come distintivi e che ne caratterizzano la ricerca, la didattica. Non settori scientifici separati da steccati disciplinari ma temi e percorsi, visioni comuni, espressioni e formazioni di coloro che hanno maturato una diversa prospettiva sul mondo.
LA RICERCA CHE VORREI
VALENTINA BAMBINI Linguista, vincitrice di ERC
"Dietro al progresso tanto tecnologico quanto culturale della società c'è la passione di donne e uomini che, mossi dalla curiosità per il mondo, decidono di dedicare la propria vita a ricercare"
Dietro ai computer ultrasottili e ultraperformanti del futuro c’è la ricerca sul grafene; dietro agli innovativi programmi di educazione multilingue ci sono anni di studi sugli effetti del bilinguismo, non più visto come un ostacolo all’apprendimento; dietro all’ultimo prodotto “bio” per la cura personale c’è la ricerca su tensioattivi sostenibili che non danneggino l’ecosistema marino. Insomma, dietro al progresso tanto tecnologico quanto culturale delle società c’è la passione di donne e uomini che, mossi dalla curiosità per il mondo, decidono di dedicare la propria vita a “ricercare”, approfondire problemi, trovare risposte, creare nuove soluzioni.
Ma la passione non basta. La passione da sola non sarebbe sufficiente a rendere la ricerca diversa da un hobby. L’altro elemento fondamentale è il metodo scientifico. Un metodo che nasce dallo studio approfondito dello stato delle conoscenze, dalla formulazione di ipotesi e contro-ipotesi, dal confronto serrato con i dati empirici, dall’apertura verso approcci innovativi provenienti da campi affini. Il premio Nobel per la medicina arrivò a Rita Levi Montalcini nel 1986, dopo trent’anni di esplorazione del fattore di crescita nervoso. Il ritratto di Dante che ora possiamo ammirare nella sua rinnovata vividezza alle Gallerie degli Uffizi è frutto di approfondite indagini non solo sulla storia dell’affresco, ma anche sul suo stato di conservazione e sui materiali che lo compongono. La complessità del mondo attuale impone la necessità di un metodo rigoroso, capace di tenere in conto una grande mole di informazioni e di integrare approcci provenienti da discipline diverse.
La ricerca che vorrei è una ricerca che, mantenendo la bussola del rigore scientifico, si apre alla multidisciplinarità, promuove il lavoro di gruppo, affronta nuove sfide senza pregiudizi.
La ricerca è dietro ad ogni aspetto del progresso tanto tecnologico quanto culturale – abbiamo detto. Eppure, se facessimo un sondaggio fermando i passanti per la strada e chiedendo loro come si immaginano un ricercatore, emergerebbe della ricerca una fotografia piuttosto limitata. La maggioranza delle persone descriverebbe una figura con un camice, intenta ad armeggiare tra ampolle per produrre un nuovo farmaco. Larga parte della nostra ricerca non è compresa dalla società. Io stessa, quando descrivo i miei studi sul linguaggio e sulle metafore, ricevo domande come: “ma siete logopedisti?”, “ma siete neurologi?”.
Sarebbe troppo facile identificare nella scarsa familiarità con le discipline accademiche la causa di ciò. Le ricercatrici e i ricercatori hanno il dovere di migliorare la loro capacità di raggiungere la società tutta. E questo tanto più se consideriamo che circa il 30% della ricerca è finanziata direttamente dal denaro dei nostri concittadini.
La ricerca che vorrei è una ricerca che sa dialogare con la società, recepirne le istanze, diventare “partecipata”.
Alla Scuola IUSS, nei nostri corsi, cerchiamo non solo di trasferire nozioni, ma soprattutto di insegnare il metodo della ricerca, contaminando discipline, illustrando strategie di valorizzazione dei risultati nella società, portando le giovani menti al cuore di quello che è, secondo noi, il mestiere più bello del mondo.
Scopri chi è la Prof.ssa Valentina Bambini
I PONTI CHE VORREI
GIAN MICHELE CALVI Ingegnere strutturista
"Imagine London, Paris and Romewithout dry paths across the Thames, the Seine and the Tiber ..."
Imagine all the people … Livin’ life in peace …
Nel 1971 John Lennon (ispirato da Forrest Gump, come tutti sanno) immaginava un mondo diverso. Poche parole che ognuno poteva sognare come voleva.
A differenza di John Lennon, Henry Petrovski lo conoscono in pochi. Anche lui, vent’anni dopo, immaginava un mondo diverso, ma il sogno era diventato incubo.
Imagine a world without bridges.
Imagine London, Paris and Rome without dry paths across the Thames, the Seine and the Tiber.
Imagine Manhattan as an island with no hard crossing of the Hudson and East rivers. […]
Imagine Florence with its Uffizi and its Pitti Palace but without their connection across the Ponte Vecchio …[1]
Un mondo con tutta la Creazione, ma senza le opere in cui l’uomo ha lasciato un segno di sé.
I Romani costruivano ponti magnifici, per muovere gli eserciti, come Cesare [2] attraverso il Reno, ma anche per portare l’acqua a distanze inimmaginabili, come il Pont du Gard a Nimes. Il ponte di Cesare è durato meno del suo esercito. Quello sul Gard continua a testimoniare la sapienza costruttiva degli ingegneri romani.
Vorrei ponti che attraversino molte generazioni.
Racconta Erodoto di Serse che attraversa l’Ellesponto su un ponte di barche. Proprio lì è stato costruito il ponte dei Dardanelli (Çanakkale Boğazı Köprüsü), con la campata più lunga del mondo. Partendo dunque da Abido in direzione di questo tratto di costa, costruivano i ponti secondo gli ordini, i Fenici con funi di lino bianco, gli Egiziani con funi di papiro. Ci sono sette stadi da Abido alla costa di fronte [3].
Racconta Tucidide della guerra tra Atene e Sparta, con le flotte a guardarsi all’imbocco del Golfo di Corinto. Proprio lì è costruito un ponte, inaugurato nel 2004 dal passaggio della torcia olimpica. Questo capo, Rio, era un territorio legato agli Ateniesi da vincoli di amicizia: l’altro Rio, che fa parte del Peloponneso, è situato sulla riva opposta. La distanza tra i due punti è di circa sette stadi, naturalmente di mare: si tratta dell’imboccatura del golfo Criseo [4].
Vorrei ponti che parlino delle grandi storie del passato.
Nel 1891 fu inaugurato un elegante ponte girevole tra La Maddalena e Caprera. Lo si può vedere in qualche vecchia cartolina. Fu poi sostituito da due ponti Bailey a traliccio, funzionali ma orrendi. Nel 2009 un nuovo ponte ha ripreso quello antico, con tecnologie e materiali del XXI secolo. Ad attraversarlo sembra di camminare sull’acqua, calma da un lato, mossa dall’altro.
Vorrei ponti eleganti e funzionali, che sognano e fanno sognare.
Bridges have become symbols and souls of cities, and each city’s bridges have been shaped by, and in turn shape, the character of that city. […] Imagine the Golden Gate spanned by anything by the Golden Gate Bridge. Is it possible? [1].
Vorrei ponti perfetti, che narrino la gloria di Dio attraverso l’opera dell’uomo.
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Khan.
– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco,
– ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Khan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco [5].
Alla Scuola IUSS parliamo dell’arco, ma anche delle pietre.
[1] H. Petrovski, Engineers of dreams. Great bridge builders and the spanning of America (1995). Knopf.
[2] G. J. Caesar, Commentarii de bello gallico (58-49 a.C.). IV, 17.
[3] Erodoto, Ἱστορίαι (Storie, ~430 a.C.). VII, 34.
[4] Tucidide, Περὶ τοῦ Πελοποννησίου πoλέμου (La guerra del Peloponneso, ~410 a.C.). II, 86.
[5] I. Calvino, Le città invisibili (1972). Einaudi.
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LE DECISIONI CHE VORREI
NICOLA CANESSA Psicologo
E' solo in un orizzonte temporale sufficientemente ampio, e non nella "veduta corta" che le cronache ci consegnano, che un percorso costellato da tanti piccoli fallimenti può condurre a pochi, ma grandi e rilevanti successi".
Con una frase divenuta poi aforisma, il chimico e fisico Jean Perrin, Nobel per la Fisica nel 1926, affermò che “Spiegare visibili complicati per mezzo di invisibili semplici” è quella forma di intelligenza intuitiva che guida il percorso scientifico. Un percorso che i ricercatori sanno essere costellato di costanti sforzi, solo talvolta ricompensati da successi che regalano il piacere della scoperta, la consapevolezza di aver espanso i confini della conoscenza, e la speranza negli effetti positivi di questo contributo. Volando molto più basso, occuparsi di decisioni e rischio nella propria attività di ricerca stimola a notare tanti visibili complicati nel flusso continuo di scelte fatte in prima persona o osservate negli altri, e a cercare di interpretarli alla luce degli invisibili
semplici che psicologia, economia comportamentale e neuroscienze cognitive individuano in specifiche tendenze spontanee nel modo di prendere decisioni. Nel farlo mi capita di pensare che conoscere questi temi non è un antidoto sufficiente contro decisioni magari non completamente sbagliate ma certo non ottimali, perché prese d’impulso, o perché guidate soprattutto dal tentativo di evitare le spiacevoli conseguenze dell’aver preso un rischio non ben calcolato, o dell’aver scelto di abbandonare la strada vecchia per provarne una nuova. Il più radicato di questi meccanismi protettivi è quello che ci spinge a sovrastimare le conseguenze negative di una scelta rispetto a quelle positive, e quindi a cercare di evitare perdite e fallimenti più che a ottenere guadagni e successi. Un ragionevole principio di precauzione, verrebbe da dire, almeno fino a quando non ci chiediamo quante opportunità future si perdono nel cercare di evitare perdite immediate, e, quindi, cosa sia davvero un “fallimento”. Alcune settimane fa ho discusso questo tema con allieve e allievi presenti al mio corso ordinario, ai quali ho chiesto la loro opinione sul puro bilancio numerico tra successi e fallimenti nell’arco di una vita. La risposta era scritta nei loro volti, ma - spero - inquadrata alla luce del tema portante di quel corso, ossia la capacità di fare tesoro delle esperienze, imparando sia ad aggiornare le proprie aspettative sugli esiti di decisioni successive, per migliorarle, sia a saper investire le energie necessarie per poterle tradurre in azioni concrete, per realizzarle. Un “fallimento”, allora, diventa una preziosa informazione per quei circuiti cerebrali che ci aiutano ad apprendere dall’esperienza. Come possiamo, allora, migliorare, sapendo che la complessità delle società contemporanee esclude implicitamente decisioni facili dalle quali possano derivare solo conseguenze positive immediate, se non per tutti anche solo per la maggioranza dei loro membri? Cosa contraddistingue le decisioni che vorremmo, da noi stessi e da chi governa, in un periodo nel quale sono ormai evidenti - a chi vuole vedere - le conseguenze di scelte sbagliate dalle quali non si è appreso abbastanza? Le risposte possibili sono tante, ma una le contiene tutte: una visione di lungo periodo, focalizzata su obiettivi chiari e raggiungibili purchè perseguiti con la giusta motivazione, anche se al costo di qualche perdita nel breve periodo. Una risposta forse banale, ma che evidentemente non è facile tradurre in decisioni concrete. Chiediamoci allora, quanti sforzi sono costati i progressi scientifici che oggi ci consentono di dare per scontate tante forme di benessere. Non è facile mantenere questo tipo di motivazione, quando è solo nel lungo periodo che i benefici arrivano a superare i costi. Eppure, è solo in un orizzonte temporale sufficientemente ampio, e non nel costante calcolo di breve periodo che le cronache ci consegnano, che un percorso costellato anche da fallimenti può condurre a pochi, ma grandi e rilevanti, successi.
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LO SPAZIO CHE VORREI
Andrea Taramelli, geologo
"L'innovazione non si esaurisce nella sua dimensione tecnologica ma necessita di nuovi visionari"
Sin da bambini si rimane affascinati da quello che è sempre stato il concetto di Spazio: una visione verso il futuro piena di incertezze e di scoperte innovative. Nel corso del precedente secolo e in questo appena iniziato lo spazio ha sempre avuto un ruolo chiave per lo sviluppo e la visione e ha visto uno dei suoi momenti epici nel gennaio del 1961 in cui John Kennedy fu eletto Presidente degli Stati Uniti. A pochi mesi dal suo insediamento infatti, e precisamente nel maggio del 1961, Kennedy si presentò al congresso chiedendo il sostegno per un progetto straordinariamente ambizioso. Disse: “Credo che questo Paese debba impegnarsi a realizzare l’obiettivo, prima che finisca il decennio, di far arrivare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra”. Non c’è mai stato nessun progetto spaziale così impressionante per l’umanità, o più importante per l’esplorazione dello spazio e nessuno sembrava così difficile e così costoso da realizzare. Un progetto folle ma visionario: un viaggio costosissimo, pericolosissimo con l’obiettivo inutile dichiarato di arrivare sulla Luna per tornare a casa. Era ed è infatti opinione diffusa che in una società industriale lo sguardo visionario attraverso la tecnologia sia un fattore determinante per mantenere un vantaggio rispetto ai concorrenti ed evitare la perdita di competitività della propria base industriale e con essa minare la stessa sovranità nazionale, creando le condizioni favorevoli al declassamento, alla deindustrializzazione e a tutte le relative conseguenze sul piano socio economico. Per questo motivo il progetto Apollo costò complessivamente oltre 100 miliardi di dollari attuali, coinvolse centinaia di migliaia di scienziati e tecnici e migliaia di aziende, produsse un’enormità di innovazioni tecnologiche in tanti diversi settori industriali e migliaia di brevetti, garantì lo sviluppo di ambiti tecnologici nei quali le industrie americane sono state leader indiscusse per decenni. John Kennedy nel settembre del 1961 pronunciò il famosissimo discorso alla Rice University di Huston, vicino al quartier generale della NASA, in cui annunciò il programma spaziale di fronte a 40.000 persone ma non vide l’allunaggio di Neil Armstrong perché fu assassinato nel 1963. Proprio per questo tuttavia, prima di focalizzarsi esclusivamente sul concetto di tecnologia, cercando di comprendere in che misura essa costituisca un fattore abilitante per uno sviluppo sostenibile, vale la pena ricordare come il progresso tecnologico rimandi al concetto più ampio di innovazione e sviluppo, non necessariamente tecnologica e che siano questi, piuttosto che la tecnologia in sé, il fondamento di ogni progresso socio economico, come avviene negli ecosistemi naturali con il processo di evoluzione.
Si può quindi dire che lo spazio di crescita del benessere economico e sociale dipende da un investimento forte e strategico quale quello dello spazio, inteso come quel sistema che comprende tutti gli attori pubblici e privati coinvolti nella fornitura di prodotti e servizi spaziali.
Lo Spazio e quella che oggi viene definita la New Space Economy si caratterizza per comprendere una lunga filiera che parte dai produttori di space hardware (ad esempio lanciatori, satelliti, stazioni a terra) fino a comprendere i fornitori di prodotti abilitanti (ad esempio apparecchiature di navigazione, telefoni satellitari) e servizi (servizi meteorologici basati su satelliti o servizi direct-to- home video). L’importanza dello sviluppo socio economico nel settore spazio introduce bene il concetto di “sviluppo sostenibile” che tiene in conto l’ambito economico, sociale e ambientale, in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni dell’attuale generazione senza compromettere i bisogni delle generazioni future. Dal punto di vista socio-economico lo sviluppo da solo non è sufficiente, esso va pianificato e programmato in modo sostenibile. È importante che questo sviluppo sia durevole nel tempo e sia fatto in forma graduale, creando un’economia basata su un’ottima relazione tra la crescita economica, le condizioni sociali e l’uso delle risorse. In questo modo emerge l’importanza dello spazio dell’innovazione, come motore principale del progresso socio economico di un paese.
Questo forte investimento sullo spazio attraverso la New Space Economy deve essere quindi ora finalizzato a sfruttare l’infrastruttura spaziale al meglio intendendo con ciò non solo le capacità esistenti ma anche la promozione e il sostegno alla ricerca di servizi innovativi e nuove tecnologie. A ciò va aggiunta la necessità di indirizzare la ricerca di nuove tecnologie e applicazioni che meglio rispondano e anzi anticipino le più importanti sfide sociali contemporanee. In questo modo emerge l’importanza dell’innovazione, come motore principale del progresso socio economico di un paese.
Questo è lo spazio che vorrei…come definito dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) nel manuale di Oslo: l’innovazione non si esaurisce nella sua dimensione tecnologica ma necessità di nuovi visionari, quale lo fu Kennedy, capaci di individuare un fattore di scala che possa mappare il posizionamento di una determinata tecnologia e della filiera in cui si contestualizza per il futuro delle prossime generazioni.
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L'ECONOMIA CHE VORREI
Alessandro Caiani, economista
"Il mio interesse per gli studi economici era nato dall'esperienza dei grandi movimenti globaliche auspicavano un modello di sviluppo più equo, inclusivo e attento alla sostenibilità ambientale"
Mi sono affacciato all’età adulta negli anni a cavallo tra i due secoli. Erano gli anni della rivoluzione ICT, con la diffusione su larga scala dei computer e dei cellulari e la crescita esponenziale di Internet.
Erano anche gli anni in cui nasceva l’Euro, scomparivano le dogane e sembrava affermarsi un’Europa senza più confini interni a separare gli Stati. L’arrivo del nuovo secolo portava con sé la promessa di una società in cui le distanze si sarebbero annullate rendendoci tutti cittadini di un unico “villaggio globale”. Tutto ciò era reso possibile da un modello di organizzazione della società e dell’economia che, secondo molti, rappresentava il culmine di un processo evolutivo millenario e che, grazie al suo dinamismo tecnologico e alla sempre maggiore integrazione economica internazionale, avrebbe portato un benessere diffuso, ponendo le basi per una pace globale duratura: era “la fine della Storia”. Anche in Economia la convinzione diffusa era che il paradigma dominante avesse ormai individuato le ricette corrette per risolvere i grandi problemi delle nostre società. Quando cominciai gli studi economici, la didattica rifletteva questa visione monolitica. L’Economia forniva il modello ideale al quale le società dovevano conformarsi, spiegandoci come le decisioni prese da soggetti iper-razionali allo scopo di massimizzare il loro tornaconto personale garantissero quasi sempre, in un’economia di mercato, l’utilizzo più efficiente delle risorse e il raggiungimento del massimo benessere collettivo. Grazie alla cristallina chiarezza della propria architettura matematica, l’Economia rivendicava la propria autonomia e il proprio primato sulle altre scienze sociali. Gli aspetti storici, politici, sociologici e comportamentali venivano quasi completamente estromessi dall’analisi. Come studente, per me questo rappresentava un’enorme fonte di frustrazione. Il mio interesse per gli studi economici è nato dall’esperienza dei grandi movimenti globali che auspicavano un modello di sviluppo più equo, inclusivo e attento alla sostenibilità ambientale.
Leggendo le critiche di Ha-Joon Chang alle politiche per lo sviluppo, o l’analisi dei sistemi di welfare della Scuola della Regolazione francese, o le critiche al processo di globalizzazione dei mercati di un gigante come Noam Chomski e di un “ortodosso eretico” come Joseph Stiglitz, con cui anni dopo ho avuto la fortuna di lavorare, mi ero innamorato di un’Economia che faticavo a ritrovare nei miei libri di testo. Per buona parte del mio percorso formativo ho quindi dovuto coltivare i miei interessi in modo autonomo e parallelo rispetto agli studi universitari. Oggi la situazione è al tempo stesso diversa e simile rispetto a quegli anni. Diversa, perché gli eventi degli ultimi due decenni hanno mostrato che la Storia continua a fluire e che talvolta ripropone pagine pericolose del passato. In Economia, l’incapacità di fronteggiare le grandi crisi economiche globali e la consapevolezza crescente dei pericoli climatici e ambientali, hanno favorito la nascita di nuovi ambiti di ricerca: l’economia dei cambiamenti climatici, l’economia della complessità, l’analisi delle reti, l’economia sperimentale e comportamentale sono alcuni esempi di branche in rapida espansione, caratterizzate da un orientamento multidisciplinare. Tuttavia, la didattica rispecchia ancora largamente lo stesso approccio monolitico del passato. L’Economia che vorrei è invece una disciplina finalmente pluralista e aperta alle contaminazioni con altri ambiti di studio, sia nella didattica che nella ricerca. Alla Scuola IUSS ho trovato il posto ideale per realizzare questo desiderio. Nell’attività di didattica sono libero di esplorare temi che normalmente non trovano spazio nei corsi curricolari universitari. I nostri studenti non solo hanno la possibilità di approfondire argomenti e metodologie del loro ambito di studio, ma sono incentivati ad affrontare insegnamenti in ambiti completamente differenti. Nella mia attività di ricerca, studio gli effetti dei cambiamenti climatici e le politiche per la transizione verde collaborando con ingegneri, esperti di machine learning e fisici del clima, cercando di combinare metodologie proprie dell’analisi economica con modelli d’impatto ingegneristici e modelli climatici di previsione, allo scopo di superare i limiti dei tre ambiti presi isolatamente. Questa contaminazione è spesso complicata e gli esiti sono incerti, ma alla Scuola IUSS siamo convinti che questa sia la via più proficua per affrontare le sfide odierne, fedeli al nostro motto Sapere Aude!
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LA CURA CHE VORREI
Annalisa Bonfiglio, Bioingegnera
"La visione di una cura più a misura della persona è la prospettiva positiva che guida oggi lo sviluppo delle tecnologie e delle metodologie biomedicali".
Mi raccontava mio padre che quando lui era un bambino i medici condotti venivano a visitare i pazienti, entravano nella stanza e, inspirando l’aria, sentenziavano “Questo ha la polmonite!”. Certamente avevano meno mezzi per combatterle, le polmoniti, e negli anni 40 ancora si poteva morire perché la penicillina non era ancora diffusa come lo è oggi. Tuttavia, è innegabile che, nello spazio di una vita umana, si è passati da una diagnostica ancora basata sui sensi (analogici) del medico ad una basata sulla tecnologia (digitalizzata) delle macchine, che sono in grado di misurare, con precisione e ripetibilità, un gran numero di parametri. Cosa ci aspetta domani? Invecchieremo in un mondo in cui la medicina ha fatto passi da gigante in ogni direzione: molte malattie sono state debellate, alcune decisamente ridimensionate. I “mali incurabili” di cui si parlava sottovoce fino ad un po’ di anni fa, magari non sono diventati guaribili ma nella maggioranza dei casi sono divenuti problemi con i quali convivere avendo i mezzi per mantenere una qualità di vita ragionevole. Sebbene la realtà non sia priva di chiaroscuri, non possiamo che essere globalmente fieri dei progressi della Medicina e della Tecnologia Biomedica: nessuno si sognerebbe di tornare indietro. La diagnostica allungherà il passo verso il riconoscimento precoce dei primi segni di una malattia, aiutata da una tecnologia che si farà sempre più capillare e discreta. L’avvento delle tecnologie indossabili, che fino a qualche tempo fa sembrava più una moda per sportivi della domenica ossessionati dall’ultimo gadget, renderà possibile monitorare giorno per giorno, senza quasi accorgercene, la nostra salute. Come la scatola nera per un aereoplano, avremo l’opportunità di registrare in modo impercepibile (magari con un piccolo tatuaggio in qualche zona invisibile del nostro corpo) migliaia di segnali prodotti dal nostro corpo, e grazie all’intelligenza artificiale resa possibile da macchine di calcolo sempre più potenti, saremo in grado non solo di monitorare ciascuno di essi ma anche di correlarli trovando inattese relazioni, indizi sempre più probanti di uno stato generale ricco di tutte le sfumature che fanno di noi una persona più o meno sana, qualunque cosa questo voglia dire. Anche su questo ci sarà da riflettere: cosa definisca il nostro “stare bene” è quasi un problema mal posto, che ha radici profonde in ciò che fa di noi quello che siamo. La domanda primordiale è un’altra: Cosa fa di me la persona che sono? Cosa differenzia me da un mio gemello che ha vissuto un’altra vita? Sono passati solo 20 anni dal completamento del sequenziamento del Genoma Umano, per molto tempo ritenuto il Sacro Graal della Biologia, ma è oramai chiaro che la nostra vera essenza biologica è più di quanto sia la sequenza dei geni del nostro DNA e si compone di quello che abbiamo vissuto, cosa abbiamo mangiato, persino l’educazione che abbiamo avuto. Nuovi dati si aggiungono a quelli che potremo rilevare con i potenti sensori di cui disporremo e questi dati serviranno a tracciare un nostro ritratto sempre più preciso, sempre più vicino a ciò che siamo per davvero e ciò sarà utile per tracciare in modo esatto non solo la diagnosi, ma un’ipotesi di cura che si adatti per davvero alle nostre esigenze e che tenga conto nei dettagli di tutte le nostre caratteristiche. La visione di una cura più a misura della persona è la prospettiva positiva che guida oggi lo sviluppo delle tecnologie e delle metodologie biomedicali e che, al tempo stesso, da l’immediata percezione della complessità dei problemi, scientifici, tecnici, gestionali, etici che si porranno man mano che questa evoluzione diventerà realtà.
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IL DOTTORATO CHE VORREI
Mario Martina, Ingegnere idrologo, Coordinatore di dottorato
"Il dottorato che vorrei lo stiamo costruendo in Italia per centinaia di ricercatori italiani e stranieri, con il sostegno del Ministero dell'Università e della Ricerca".
Finita l’università, mi era rimasta ancora una gran voglia di studiare. Fare il dottorato mi sembrava un’idea geniale per farne un mestiere. Inviai due domande. Per una non ricevetti mai risposta, per l’altra dopo pochi mesi mi presentai davanti ad una commissione che mi chiedeva quale progetto di ricerca avessi. Non avevo un progetto chiaro, ma mi interessava quell’arte del formulare le domande e del ricercare le risposte. Così in poche settimane il mio status passò da ingegnere a dottorando. E subito mi trovai in qualche difficoltà. Prima quella di spiegare quel gerundio letteralmente indefinito a chi l’università non l’aveva fatta o l’aveva lasciata con l’alloro in testa. Poi quella di combattere per la mia stessa esistenza. Nel dipartimento non c’erano stanze per i dottorandi, la loro presenza era tollerata nei corridoi o negli studi di docenti latitanti. Carico di orgoglio, a capo di un gruppetto di miei simili ma forse solo più impauriti di me, andai a parlare con il direttore del dipartimento. Ottenni il diritto di liberare l’ex bilocale del custode al piano terra della sede per adibirlo ad aula studio dottorandi. Poi convinsi lo stesso custode ad aprire un vecchio magazzino dove trovai scrivanie, sedie e lavagne destinate allo smaltimento ed a riutilizzarle per l’arredo. Riuscii anche a corrompere il tecnico informatico per avere l’e-mail ufficiale della università. La mia esistenza di dottorando e quella dei miei colleghi era salva, ma furono comunque tre anni di lotta per la sopravvivenza. Oltre vent’anni dopo cosa è cambiato? Tanto, ma non abbastanza. Sicuramente è cambiata la mia prospettiva: ora sono coordinatore di un dottorato di ricerca sul tema dello sviluppo sostenibile e del cambiamento climatico. È un dottorato particolare, definito "di interesse nazionale” perché offerto da 52 università italiane in convenzione, oltre il 50% del totale, e perché coinvolge tutte le aree disciplinari accademiche invece di una o due come per i corsi tradizionali. La Scuola IUSS è stata promotrice di questo modello di dottorato trans-disciplinare, primo nel panorama italiano, perché è nella sua missione sperimentare modelli di formazione che superino la specializzazione settoriale e che interpretino le conoscenze delle diverse discipline accademiche come strumenti per la soluzione concreta di problemi della nostra società. Il dottorato di ricerca è riconosciuto dal nostro ordinamento come il più alto grado di formazione, titolo che certifica elevate capacità di ricerca, relazionali e di gestione. Ora ho io la responsabilità assieme a tante colleghe e tanti colleghi di assicurare le condizioni perché anche il nostro corso arrivi a tale traguardo. Ma, nonostante i passi fatti finora, vedo ancora la lotta alla sopravvivenza dei dottorandi. Lotta per una identità professionale e per una dignità accademica. Ancora ora quel gerundio indefinito indica letteralmente un periodo di transizione ed incertezza intollerabile. E anche dopo, chi rimane nel mondo accademico deve mettere in conto ulteriori sacrifici e compromessi prima di poter fare stabilmente della ricerca la propria professione. Fuori dal mondo accademico, in quello delle imprese e della pubblica amministrazione, tanto c’è ancora da fare per valorizzare il titolo di dottore di ricerca.
Il dottorato che vorrei non avrebbe borse di studio appena sufficienti a pagarsi un posto letto, ma contratti di lavoro con uno stipendio dignitoso al pari degli altri stati europei. Il dottorato che vorrei avrebbe spazi luminosi e risorse adeguate per il libero esercizio alla curiosità. Il dottorato che vorrei sarebbe l’apprendistato dell’arte del formulare le domande e del ricercare le risposte. Il dottorando che vorrei alla fine si chiamerebbe ricercatore, letteralmente. Il dottorato che vorrei lo stiamo costruendo in Italia per centinaia di ricercatori italiani e stranieri, con il sostegno del Ministero dell’Università e della Ricerca, insieme alle colleghe ed i colleghi di 52 università italiane che credono e si impegnano nell’ambizioso ed entusiasmante progetto di dottorato di ricerca in sviluppo sostenibile e cambiamento climatico.
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IL SAPERE CHE VORREI
ANDREA SERENI Filosofo
"Non si apprende se non costringendosi inizialmente ai paradigmi e ai criteri di una disciplina".
In un famoso testo del 1784 Immanuel Kant si proponeva di rispondere alla domanda “Che cos’è l’Illuminismo?”. La definizione, sintetica quanto iconica, è che “L’illuminismo è l’uscita dell’essere umano dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole”. Lo stato di minorità si deve alla “incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro”. E tale incapacità diventa colpevole “se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro”. Non è difficile vedere nel passaggio da tale stato di minorità
allo stato di autonomia dell’essere umano una stretta analogia con il microcosmo privato delle età della vita. D’altronde, precisa Kant, “È così comodo essere minorenni!”. La rivoluzione personale che aspetta chi si affaccia agli studi accademici ha spesso – o dovrebbe comunque avere – il sapore dell’illuminismo kantiano. Il passaggio da studenti a studiosi è una difficile ma entusiasmante conquista di libertà e autonomia, lastricata di ostacoli e vicoli ciechi, di orizzonti spalancati e vastità spiazzanti.
E di contraddizioni. Non si apprende se non costringendosi inizialmente ai paradigmi e ai criteri di una disciplina, ma non si cresce se non scavalcando, integrando, inseguendo curiosità ed emancipazione.
L’autonomia – la capacità di orientarsi nel pensiero – non si raggiunge senza guide, senza affidarsi a chi custodisce almeno un
pezzettino di sapere da tramandare, ma richiede che la guida non diventi ceppo o giogo, non costringa la diversità, non limiti l’inventiva, non inibisca lo scontro, non impedisca quella che Kant riteneva “la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi”.
L’avventura della ragione che anima il passaggio dalla minorità all’autonomia, che va dallo studio alla ricerca e a ciò che essa restituisce – in tempi incerti e delicati – ai singoli e alla società, è una miscela complessa di fiducia e dubbio, di isolamento e di comunità, di condivisione e di indipendenza. Promette maturità ma richiede fatica, esattezza e sensibilità. Soprattutto, richiede coraggio. Non a caso il motto – il motto stesso dell’illuminismo – che a lungo ha accompagnato la Scuola IUSS è l’incitazione con cui Orazio distilla uno dei suoi più preziosi consigli: Sapere Aude – abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza.
A chi si appresta a questa avventura, con l’umiltà di imparare e la passione per le rivoluzioni, l’unico incitamento possibile è quello che rimane del consiglio di Orazio: incipe!
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L’UNIVERSO CHE VORREI
Andrea Tiengo, Astrofisico
"Tutte le scienze fanno progressi incredibili, ma solol'astrofisica è in grado di fornirci il quadro generale ... stimolandoci a riflettere su quanto siano effimeri i confini che abbiamo creato sul nostro minuscolo pianeta e nella nostra mente".
“Tutte le scienze fanno progressi incredibili, ma solo l’astrofisica è in grado di fornirci il quadro generale... stimolandoci a riflettere su quanto siano effimeri i confini che abbiamo creato sul nostro minuscolo pianeta e nella nostra mente”. L’astrofisica è una scienza un po’ diversa dalle altre perché non c’è alcuna possibilità di interagire con ciò che si studia: quelli che nelle altre scienze sono “esperimenti”, per gli astrofisici sono “osservazioni”. Se infatti escludiamo il Sistema Solare, tutti gli oggetti astronomici sono troppo distanti per subire una qualunque influenza umana. Questa condizione passiva può essere un po’ frustrante, ma è allo stesso tempo rassicurante: l’umanità potrà anche devastare il proprio pianeta, ma buona parte dell’Universo può stare tranquilla, almeno per un po’… Ma allora, che senso ha parlare dell’Universo che vorrei? No, non è il delirio di un pazzo megalomane, come qualcuno potrebbe pensare. E non posso neppure augurarmi che l’Universo possa evolversi spontaneamente in una qualche forma particolarmente favorevole, per lo meno sulla scala temporale della nostra breve vita. Ciò che però cambia a una velocità incredibile è la nostra conoscenza dell’Universo stesso, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie e alla capacità umana di utilizzarle e interpretarne i risultati. Trent’anni fa ero da poco diventato maggiorenne e frequentavo l’ultimo anno di scuola superiore, che mi avrebbe portato all’esame di maturità e alla scelta (difficile, ma suggerita dal fascino irresistibile dell’astrofisica) di iscrivermi al corso di laurea in Fisica. All’inizio del 1993 il telescopio spaziale Hubble era già operativo, ma solo nel mese di dicembre sarebbero state corrette le sue ottiche, rendendolo, fino al recente lancio del James Webb Space Telescope (principale innovazione del 2022, secondo la rivista Science), il nostro occhio più acuto sull’Universo. Era poi stata appena annunciata la scoperta dei primi pianeti al di fuori del Sistema Solare, intorno a una stella di neutroni, ovvero un cadavere stellare che concentra in pochi chilometri tutta la massa di una stella più grande del nostro Sole. Due anni dopo, invece, sarebbe arrivata la scoperta di un pianeta in orbita intorno a una stella simile al Sole e, da allora, il numero di pianeti noti ha ormai superato le diverse migliaia. Fin dai tempi di Giordano Bruno si immaginava l’esistenza di pianeti intorno ad altre stelle, ma in pochi avevano previsto una così rapida esplosione di conoscenze in questo settore. Un’altra scoperta inaspettata avvenuta prima della fine del millennio è stata l’evidenza di un’espansione accelerata dell’Universo, che conferma come energia e materia oscura, chiamate così proprio perché ancora non sappiamo esattamente cosa siano, costituiscano oltre il 95% dell’Universo. In anni più recenti, nel 2015, sono state rilevate le prime onde gravitazionali, prodotte dalla fusione di due buchi neri: avevamo già evidenze convincenti dell’esistenza sia delle onde gravitazionali sia dei buchi neri, ma questa singola misura, seguita da altre decine di segnali analoghi, ne è stata la conferma più diretta. A queste scoperte sono poi seguite le onde gravitazionali prodotte dalla fusione di due stelle di neutroni e la prima immagine, nella banda delle onde radio, di un buco nero. Le onde gravitazionali hanno aperto una nuova finestra sullo studio del nostro Universo, che si va ad aggiungere a quella delle onde elettromagnetiche e delle particelle di origine cosmica. Ma anche queste tradizionali finestre sul cosmo si sono enormemente allargate negli ultimi decenni, grazie principalmente alle missioni spaziali che ci permettono di studiare il cielo anche attraverso le radiazioni che non riescono ad attraversare l’atmosfera terrestre. Questo vale in particolare per i raggi X, di cui mi occupo soprattutto nel mio lavoro di ricerca. Tra tutte le sorgenti cosmiche di raggi X, poi, l’obiettivo principale della mia ricerca sono le magnetars, stelle di neutroni che ospitano i campi magnetici più intensi mai osservati nell’Universo. Anche in questo caso, la loro esistenza ci era ignota fino a tempi recenti, essendo stata ipotizzata solo nel 1992. A conferma di quanto queste scoperte abbiano inciso sulla nostra conoscenza 37 dell’Universo, possiamo osservare che nell’ultimo ventennio più di un quarto dei premi Nobel per la Fisica sono stati assegnati nell’ambito dell’astrofisica. E questa percentuale è davvero impressionante se aggiungiamo che il numero di premi assegnati a queste scoperte è lo stesso di quelli distribuiti per tematiche legate all’astrofisica in tutto il secolo precedente. La nostra conoscenza dell’Universo sta quindi cambiando molto velocemente e io vorrei che l’umanità ne fosse pienamente consapevole: tutte le scienze fanno progressi incredibili, ma solo l’astrofisica è in grado di fornirci il quadro generale, aiutandoci a guardare oltre il nostro giardino di casa e stimolandoci a riflettere su quanto siano effimeri i confini che abbiamo creato sul nostro minuscolo pianeta e nella nostra mente. Oggi c’è poi la possibilità di diffondere le scoperte scientifiche in maniera immediata e capillare e addirittura coinvolgere, attraverso le nuove tecnologie, la cittadinanza nel processo di analisi e interpretazione delle osservazioni astronomiche. Questo è l’Universo che vorrei: che si continuino a svelare i suoi segreti e che questi siano fonte di ispirazione per il maggior numero possibile di persone.
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LA GRAMMATICA CHE VORREI
Matteo Greco, Linguista
"La grammatica che vorrei ... dovrebbe permettere di unire due persone creando qualcosa di nuovo, una famiglia, di unire una persona ad un' altra creando una comunità e così via".
La grammatica che vorrei dovrebbe essere in grado di esprimere pensieri infiniti, senza alcuna restrizione di numero e tipo, da quelli che più imitano la realtà che ci circonda, a quelli più stravaganti che nessuno ha mai formulato prima, come un bellissimo cammello viola con occhiali e sciarpa rossa mentre augura a tutti Buon Natale. La grammatica che vorrei dovrebbe essere come le stelle del cielo, un apparente e disordinato ammasso di elementi che, se guardato nel modo giusto, riveli regolarità sorprendenti. Dovrebbe renderci tutti all’altezza dei più grandi e fini letterati semplicemente perché richiede le stesse operazioni di base: la Commedia di Dante sarebbe tanto Divina quanto la lista della spesa o i messaggini whatsapp. La grammatica che vorrei dovrebbe essere unica per tutti gli esseri umani, almeno nella sostanza, e permettere solo limitati punti di variazione, così da essere universale. Magari non ci capiremmo tutti all’istante, ma in fondo parleremmo tutti la stessa lingua. Infatti, in Natura piccolissime variazioni nel meccanismo combinatorio che agisce sugli stessi elementi di base può dare risultati sorprendentemente diversi tra loro, tanto quanto possono essere diverse le mine delle matite dai diamanti: stessi atomi di carbonio, ma diverse strutture cristalline. La grammatica che vorrei dovrebbe essere facile da imparare, non come quando noi adulti tentiamo di acquisire una lingua nuova, ma come quando si impara a camminare da piccolini: magari si cade un
po’, magari si dice qualche strafalcione quando si tenta di usare un congiuntivo, ma c’è sempre una forza dentro di noi capace di raggiungere il risultato senza sforzi eccessivi. La grammatica che vorrei dovrebbe permettere a tutti di esprimere gli stessi infiniti pensieri senza dividere le lingue in quelle di “serie a” e di “serie b” per via di un (apparente) diverso grado di complessità. Così gli abitanti di alcune parti della Nuova Guinea o delle Hawaii che usano poco più di una decina di fonemi, o i parlanti dell’italiano che ne usano più o meno una trentina, potrebbero esprimere le stesse idee di alcune popolazione africane che ne hanno più di cento. La grammatica che vorrei dovrebbe essere in grado di poter modificare la realtà attraverso il solo uso di parole o frasi: dovrebbe permettere di unire due persone creando qualcosa di nuovo, una famiglia, di unire una persona ad un’altra creando una comunità e così via. La grammatica che vorrei dovrebbe permettere di riferirsi a chiunque e a qualsiasi cosa: da Dio al mio “io” passando per tutte le innumerevoli realtà, astratte e concrete, che esistono nel mondo o nella nostra mente. Dovrebbe permettere di creare nuove parole per popolare i mondi fantastici che adulti e bambini amano immaginare: nel mio trovereste gli elefantonni che con la loro probospada volano nel cielo giallo a fianco dei leonibbi.
A dire il vero, la grammatica che vorrei è esattamente quella che ogni essere umano utilizza in ogni singolo momento della propria vita quando comunica, quando pensa, quando prega, quando dice il fatidico “sì”, quando sottoscrive un contratto, ecc. Infatti, grazie alla ricerca filosofica e scientifica che ha accompagnato la storia dell’umanità e che ha visto alcune importanti rivoluzioni negli ultimi 70 anni, si è capito che la più fondamentale delle proprietà della grammatica delle lingue umane è esattamente questa: combinare alcuni limitati elementi di base per ottenere strutture, potenzialmente infinite, generate ricorsivamente. Per riprendere e adattare l’esempio delle matite e dei diamanti, è un po’ come se gli stessi atomi, i suoni di una
lingua o le parole stesse, combinandosi tra di loro in vari modi, fossero in grado di creare strutture cristalline completamente diverse.
Così non conta quanti siano i mattoncini iniziali, ma la sola capacità combinatoria il cui risultato da sempre infinito. Si è anche capito che lingue all’apparenza diversissime, come l’italiano e il giapponese, condividono gli stessi principi di base e appaiono come facce distinte di una stessa medaglia.
La grammatica delle lingue umane è creativa e libera, perciò capace di dar vita a nuove parole e nuove combinazioni senza alcuna difficoltà. Una facoltà che ogni bambino possiede già dalla nascita, anche se necessita di tempo e del rapporto col mondo circostante per esprimersi. Qui alla Scuola IUSS ci occupiamo precisamente di questo: indagare alcune delle realizzazioni più sorprendenti di questa facoltà di linguaggio della quale ne sono esempio il mio caro e bellissimo cammello viola con occhiali e sciarpa rossa insieme ai sui amici elefantonni e leonibbi.
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LA SICUREZZA CHE VORREI
Gerard O'Reilly, Ingegnere strutturista
"Non possiamo mai eliminare i rischi ma dobbiamo capirli per quanto ci permetta la conoscenza attuale. Dobbiamo anche sapere e migliorare le nostre capacità per affrontarli e mitigarli".
Quando ero piccolo e andavo in giro con mio padre a fare dei lavoretti in casa ho imparato da lui tantissime cose pratiche. Certo che per lui, come per tanti, fu un momento di grande orgoglio vedere suo figlio diventare un ingegnere! Finalmente ero io quello che sarebbe andato a costruire le grandi opere! Proprio io, con la pala in mano, pronto a gettare il cemento della prima colonna!
Inizialmente, mi è sembrato strano parlare di ingegneria civile e di matematica avanzata, teorie che a prima vista ti fanno male alla testa (ma bellissime appena comprese), insieme agli innumerevoli metodi di simulazione e analisi. A che cosa serve tutto ciò? Alla nostra sicurezza. Nel calcestruzzo mettiamo l’armatura non perché ci piace, ma perché serve. Serve per rendere una struttura robusta e sicura. Durante la recente pandemia, la frase “…per garantire la vostra sicurezza” si sentiva davvero spesso. Nulla da togliere dall’obbiettivo di coloro che usavano questo tipo di frase - è stato un periodo a volte surreale e per molti, purtroppo, di grande dolore - ma la frase in sé, per chi si occupa di rischio e sicurezza, fa sorridere. Nulla è certo e nessuno ti può garantire niente. Possiamo, invece, capire il problema fino in fondo attraverso le nostre competenze di base, e gestire e mitigare il rischio quanto possibile fino ad arrivare ad un livello di rischio, che riteniamo accettabile e a un livello di controllo che sia per noi rassicurante – questo è il punto! Ad esempio, ogni volta che saliamo in macchina, c’è il rischio che succeda un incidente, o che la macchina spontaneamente prenda fuoco. Capiamo benissimo che questi rischi esistono ma possiamo prendere le giuste misure per gestirli e mitigarli: la patente di guida, l’assicurazione e la revisione della macchina. I rischi ci circondano sempre.
“Ah, ma tra qualche anno il computer farà tutto!” si dice. Certo, non possiamo nascondere il fatto che il computer e la sua potenza computazionale abbia cambiato molto nelle nostre vite. Alcuni lavori verranno automatizzati e tolti dalle nostre mani, e tante cose nuove saranno possibili. Davanti ad una sfida, c’è sempre l’opportunità, e adesso ci troviamo in un momento di opportunità. È proprio questa filosofia che portiamo nel mondo di ricerca sull’ingegneria. Se viviamo in una zona sismica, abbiamo messo abbastanza armatura negli elementi strutturali per evitare che la nostra casa collassi durante un terremoto, ovvero, che il rischio di un crollo sia accettabilmente basso? Se arrivano delle tempeste fortissime, siamo sicuri che le nostre infrastrutture abbiano la capacità di resistere a questo impatto? Sappiamo se il rischio causato dal fallimento di un singolo elemento strutturale sia sufficientemente basso durante una forte perturbazione? Abbiamo applicato la nostra conoscenza di teorie complesse e la nostra capacità di fare simulazioni numeriche per capire i pericoli che affrontiamo? Per esempio, meno di 100 anni fa, si sapeva poco dell’esatta risposta dinamica di una struttura nel caso di un terremoto e come adeguatamente affrontare il tema. Grandi passi in avanti sono stati fatti negli ultimi anni in questo ambito, ma c’è ancora tanto da fare. Dobbiamo affrontare queste sfide direttamente: prendere il toro per le corna. Non possiamo mai eliminare i rischi ma dobbiamo capirli utilizzando tutta la conoscenza attuale. Dobbiamo anche conoscere e migliorare le nostre capacità per affrontarli e mitigarli. Come disse il saggio Sun Tzu: “Se conosci il nemico e conosci te stesso, nemmeno in cento battaglie ti troverai in pericolo”. È esattamente questo che ci permetterà di avere la sicurezza che vorremmo.
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LA MATEMATICA CHE VORREI
Silvia De Toffoli, Filosofa
"A volte non si capisce niente, perchè la matematica è difficile. Ma allora dobbiamo avere pazienza e non avere paura di non capire ... Con i nostri modi e i nostri tempi. E soprattutto, non dobbiamo avere paura di sbagliare".
Ero in Erasmus a Parigi ed esploravo nuove aree della matematica, e della vita. Nella prima lezione di topologia, il nostro professore ci disse di comprare dei pennarelli colorati. Fummo sorpresi. La matematica che ero abituata a fare era in bianco e nero, mi era sempre bastata una penna. Invece la matematica che ho imparato a Parigi è colorata. È questa la matematica che vorrei. È una matematica divertente ma non per questo meno rigorosa, anzi. È autentica e comprensibile e ci obbliga ad imparare a vedere più nitidamente. Henri Poincaré diceva che il compito più importante di chi insegna la matematica è quello di sviluppare l’intuizione degli allievi. L’intuizione, infatti, non è qualcosa con cui si nasce, bensì qualcosa che si coltiva. Si sviluppa usando i pennarelli colorati per risolvere dei problemi di topologia, disegnando, sbagliando e ridisegnando.
Uno degli aspetti più significativi di fare matematica è che è la facciamo noi, questa sembra una banalità ma non lo è. Nelle altre scienze dobbiamo fidarci di chi ha fatto gli esperimenti, dell’accuratezza dei dati riportati nei libri o negli articoli. Nella matematica non dobbiamo fidarci di nessuno, né accettare alcuna autorità esterna, ma solo imparare a pensare da soli. E tutti possiamo farlo. Certo, da qualche parte dobbiamo partire, ma poi se un teorema è davvero un teorema è qualcosa di cui possiamo accertarci autonomamente. A volte non si capisce niente, perché la matematica è difficile. Ma allora dobbiamo avere pazienza e non avere paura di non capire, ma avere il coraggio di imparare a capire. Con i nostri modi e i nostri tempi. E soprattutto, non dobbiamo avere paura di sbagliare. Contrariamente a quanto si pensa troppo spesso, i matematici fanno tantissimi errori. Sbagliano in continuazione. Ma imparano anche dai loro errori, e con l’esperienza sbagliano meglio e usano i loro errori in maniera creativa.
Possiamo quindi sbagliare anche noi. La matematica che vorrei è inclusiva in quanto abbraccia una moltitudine di modi diversi di ragionare. C’è chi si diverte a risolvere problemi algebrici manipolando formule, altri dalle formule vorrebbero trovare riparo
il prima possibile ma magari amano l’arte e se venissero introdotti alle geometrie amerebbero anche quelle. La matematica che vorrei non è un blocco monolitico ma un bouquet di fiori dal quale ognuno può estrarre quello il cui odore lo seduce di più, quello il cui colore gli si addice di più. E non è solo una matematica diversa, quella che vorrei, ma anche un’immagine diversa della matematica. Molti sono intimoriti dalla matematica – ma questo è perché hanno un’idea vaga e limitata di questa disciplina. E anche la filosofia della matematica ha quasi sempre considerato la matematica come un dominio di verità immutabili inaccessibile ai più. Ma è davvero così? Indagare le diverse sfaccettature della pratica matematica, come quelle in cui usiamo i pennarelli colorati e ci sbagliamo ma poi riusciamo anche a risolvere dei problemi concreti, ci obbliga a guardare alla matematica come a un’attività umana piuttosto che a un dominio di verità inaccessibili. Svelare il lato umano della matematica la rende più caotica, sì, ma anche più accessibile, più colorata e più sexy. Quindi lasciamo pure da parte questa frigida matematica monocromatica (che poi non è mai stata la vera matematica, ma solo un’immagine che purtroppo tanti ancora si tengono stretta) e apriamo gli occhi a questo mondo matematico variopinto.
E poi, come diceva Brouwer, la matematica è una specie di architettura interna. È qualcosa che facciamo ma che allo stesso tempo ci fa, nel senso che facendo matematica creiamo chi siamo, ci forgiamo il carattere, per così dire. La matematica è una disciplina del pensiero che affila la mente.
La matematica che vorrei è un casino, a volte è difficile (ma tutte le cose davvero importanti sono difficili), ma è inclusiva, autentica, e soprattutto è coloratissima. È una matematica bellissima!
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IL CLIMA CHE VORREI
Giorgia Fosser, Analista climatica
"Ho scelto la Scuola IUSS perchè ho trovato colleghi che, oltre alle loro capacità, ci mettono il cuore ... perchè è giusto, moralmente giusto fare qualcosa per il nostro mondo".
Era una triste giornata d’inverno quando mi hanno chiesto di scrivere queste righe sul clima che vorrei. Ho subito pensato al sole, al mare e alla serenità dei tempi dell’università quando il caldo non faceva paura e un acquazzone portava solo frescura… ora non è più così.
Ma iniziamo la storia dall’inizio… Quando ero all’università non si parlava ancora di cambiamento climatico o comunque non era una tematica di cui si discutesse tra uno spritz e l’altro festeggiando il buon esito di un esame. Sì, c’erano state le estati particolarmente calde del 2003 e 2006, ma con la spensieratezza del tempo, si approfittava del mare e finiva lì. Mai avrei pensato che il clima sarebbe cambiato così drasticamente e tanto meno che anch’io nel mio piccolo stavo contribuendo a questo cambiamento. Poi casualmente sono finita ad occuparmi proprio di clima e di cambiamenti climatici con il dottorato in Germania e, un po’ meno causalmente, ho avuto un figlio. Lo vedevo crescere, pensavo al suo futuro e al clima che avrei voluto che lui vivesse, come quello che ho vissuto io, senza timori di non aver abbastanza acqua, di essere travolto da un distacco nevoso in ghiacciaio o da un fiume esondante per una bomba d’acqua. Ero arrabbiata che la stupidità, le ristrette vedute e i miseri interessi di uomini e donne, impedissero a mio figlio, a tutti i nostri figli, di godere di questa nostra fantastica Natura, come abbiamo fatto noi, ma senza approfittarne, come abbiamo fatto noi. In questo ho trovato la motivazione del mio lavoro, capire il clima che cambia e come possiamo adattarci a dei cambiamenti che sono ahimè imprescindibili. Ho lavorato su queste tematiche in Olanda, Germania, Francia e Regno Unito, ma ho scelto di tornare in Italia per lavorare alla Scuola IUSS. Sono tornata perché alla Scuola IUSS ho trovato un clima di lavoro eccezionale, fatto di persone e non di gente, con un’anima sensibile agli altri e alle tematiche del clima e dei suoi impatti sociali. Ho scelto la Scuola IUSS per ché ho trovato colleghi che, oltre alle loro capacità, ci mettono il cuore, non solo per pubblicare un articolo o fare carriera, ma perché è giusto, moralmente giusto, fare qualcosa per il nostro mondo. Rimango alla Scuola IUSS perché c’è un gruppo giovane, o diversamente giovane, fatto di fisici del clima, ingegneri, economisti, filosofi, neuroscienziati e linguisti accomunati dal desiderio di condividere le proprie conoscenze e capacità settoriali nella consapevolezza che l’integrazione tra discipline diverse sia l’unico modo efficace di affrontare la tematica del cambiamento climatico. Alla Scuola IUSS siamo una piccola equipe medica per un clima malato che nel suo piccolo mette tutta sé stessa per curarlo e sensibilizzare i giovani e anche i meno giovani a questo problema che, volenti o nolenti, riguarda tutti… Tutti noi lavoriamo per ottenere il clima che vorrei. Vorrei che il clima e gli eventi meteorologici non ci facessero paura. Vorrei che imparassimo a rispettare la natura in cui viviamo, che soprattutto ci permette di vivere. Vorrei che imparassimo a non essere ciechi e sordi al cambiamento climatico. Vorrei che il cambiamento climatico non fosse solo considerato un problema tra gli altri o degli altri. Vorrei che le persone, e i ricercatori per primi, si mettessero in discussione, al di là del loro ambito di conoscenza specifico, per trovare nuove soluzioni inter-transdisciplinari per affrontare un clima che cambia in un mondo che evolve. Vorrei che tutti avessero la possibilità di vivere al lavoro il clima che io respiro ogni giorno alla Scuola IUSS con un gruppo giovane, dinamico, intraprendente e fiducioso che insieme un cambiamento positivo sia possibile.
Io lavoro alla Scuola IUSS per il clima che vorrei, e tu?
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L'UNIVERSITA' CHE VORREI
Lorenzo Bianchi Chignoli, studente
L’Università è un’istituzione affascinante. Orgogliosamente medievale nella propria storia e nei propri riti, traina lo sviluppo e punta il futuro, dirigendo il progresso tecnologico, scientifico e culturale. E soprattutto dagli anni ’60, apertasi alle masse, è anche laboratorio sociale: la tanto sognata repubblica delle lettere. Eppure, c’è ancora della strada da percorrere perché l’Università possa soddisfare la sua potenziale ed enorme ambizione di divenire il motore dell’integrazione sociale.
Dagli anni ’90, l’Italia ha visto un continuo aumento delle diseguaglianze. Siamo il paese con il più alto numero di NEET – giovani che non studiano, lavorano o cercano occupazione. Ancora, siamo terz’ultimi in Europa per percentuale di iscritti all’Università. Non potendosi insinuare che ci sia in Italia una innata avversione agli studi, devono essere altri ostacoli – sociali, economici, culturali – a fare la propria apparizione nella vita degli individui. Ed è tremendamente difficile individuare queste barriere nascoste che limitano subdolamente la mobilità sociale e l’espressione delle capacità individuali.
Al contrario, in passato, la classe sociale, il reddito e le conoscenze private decidevano esplicitamente le sorti dei singoli in termini di formazione e carriera. Solo con il tempo le capacità individuali sono state in grado di fare sempre più la differenza nella vita degli individui rispetto alla genealogia. Si è affermata l’idea fondamentale di premiare il merito: una speranzosa scommessa su quello che un individuo è disposto a fare per la società, pesato sulle sue capacità non meno che sulla sua determinazione, e inversamente agli ostacoli che l’hanno fino a quel punto trattenuto.
Eppure, il merito non è una proprietà privata, ancorché se ne parli come di una caratteristica individuale. Il merito è in larga parte un ideale normativo, non descrittivo. E le capacità individuali, ricevute in sorte alla nascita o maturate grazie alle cure dello Stato, devono sempre essere rimesse al servizio della comunità. Su questa costosa negligenza si fondano i ritardi nelle urgenze più improrogabili del nostro tempo: il cambiamento climatico, l’uguaglianza sociale, il progresso civile.
Insomma, non ci siamo ancora scrollati del tutto di dosso l’età dei privilegi, e – soprattutto – degli svantaggiati. Fare l’Università in Italia, oggi, non può più essere semplicemente la tappa provvisoria di una biografia, né un investimento in formazione per ambire a una vita da rentiers. Piuttosto, lo studio dev’essere una missione che si compie a beneficio di tutta la comunità: dei vicini e dei lontani, dei simili e dei diversi; in supporto ai decisori, ma sempre in aiuto degli ultimi e degli invisibili.
Il forte bisogno di un sapere reale si esprime nella crescente insoddisfazione verso idee astratte di studio e di ricerca, e ci traghetta verso un’Università dove il sapere acquisisce un senso solo quando ne beneficia il più ampio numero di persone. Liberandoci dal pregiudizio che ciò non possa valere per le discipline pure. Scrollandoci di dosso il fascino della cultura del salotto e della poltrona; dell’intellettuale eremitico, e forse in fondo vanaglorioso. Senza romanticismo, ma secondo realismo: chi mai può prendere a cuore l’universalismo, nella corsa al benessere, se non chi dedica la propria vita al sapere?
Allo IUSS sembrano essere tutti consapevoli di ricoprire un incarico per certi versi microscopico, ma parte di un epocale fine umanitario. La linguistica, il diritto, la filosofia della mente, le neuroscienze, sono la chiave con cui rimediare alle storture – sempre più dettagliate, ma sempre ugualmente decisive – di una piccola porzione di mondo. La ricerca è la nostra presa immediata su di esso, e la prova dell’impegno di tutti sulle vite di ciascuno.
Per un Allievo dello IUSS, infine, anche il finanziamento allo studio assume il valore di un’investitura. Esso è l’imprimatur di una Scuola e di uno Stato che ci affidano una missione da compiere, e ci chiedono di non essere delusi. Premiano il merito, ricordandoci che né reddito né estrazione sociale contano per diventare quello che vogliamo. Allo stesso tempo, però, ci rammentano che noi possediamo il merito, senza esserne proprietari.
LA SOCIETÀ CHE VORREI
Riccardo Pietrabissa Rettore
Nella società che vorrei medici e storici, ingegneri ed economisti, matematici e filosofi, chimici e storici dell'arte, linguisti e biologi ... devono avere un linguaggio comune".
Ho sempre pensato e sperato di poter contribuire al progresso della società che non è determinato solo dalla ricchezza materiale, ma piuttosto dalla capacità delle persone di comprendere le conseguenze delle proprie decisioni e di saper scegliere quelle migliori. È quindi necessario che nella società ci siano persone competenti, spesso in una pluralità di ambiti, che condividano i valori della comunità. È importante che queste qualità siano possedute almeno dai decisori negli ambienti politici, della pubblica amministrazione, delle professioni, dell’industria e della finanza, della cultura.
Quando mi sono iscritto a ingegneria il mio desiderio era progettare motori, automobili, aeroplani. Il solo pensiero di riuscire a realizzare un nuovo veicolo che funzionava meglio dei precedenti, che era più veloce, che consumava meno, che era più bello, che aveva nuove funzioni era per me un’ambizione esaltante. E così ho studiato prima la matematica, la fisica e la chimica necessarie per disporre degli elementi di base per calcolare come ottenere certe prestazioni in un progetto, successivamente le differenti tecnologie meccaniche, elettriche, elettroniche, dei materiali con le quali trasformare la materia per ottenere oggetti e dispositivi con funzioni nuove.
Sono passati più di quarant’anni da allora e la tecnologia è cambiata radicalmente. Oggi le automobili sono sempre più a trazione elettrica, sono controllate da computer che allora non esistevano; oggi telefoniamo normalmente mentre guidiamo e facciamo le fotografie con il cellulare; oggi l’orologio da polso ci dice dove siamo e come andare da un luogo all’altro; oggi molte delle cose che ho studiato all’università non servono più, alcune non esistono più se non nei libri di storia della tecnologia. La scienza aggiunge sapere, la tecnologia cambia i propri paradigmi. Anche le società mantengono i loro valori, ma ne cambiano l’impatto nella vita sociale e economica.
I nostri genitori non potevano immaginare il mondo di oggi, anche se hanno contribuito a realizzarlo. Dobbiamo domandarci quanti hanno partecipato consapevolmente ai cambiamenti degli ultimi trent’anni, quanti hanno preso decisioni consapevoli delle trasformazioni che avrebbero prodotto, quanto sia possibile prevedere gli effetti diretti e quelli indiretti delle decisioni, gli effetti immediati e quelli di lungo periodo. I nuovi laureati e dottori di ricerca non possono più essere esperti solo nelle discipline dei loro corsi di studio, soprattutto se avranno ruoli di responsabilità decisionale nella società. Nella società che vorrei medici e storici, ingegneri e economisti, matematici e filosofi, chimici e storici dell’arte, linguisti e biologi devono essere capaci di partecipare al progresso della società capendosi, devono avere un linguaggio comune.
La scomposizione della conoscenza, dei problemi e della natura mediante le discipline inventate dall’uomo deve essere armonizzata per ottenere la qualità del progresso, quello che molti chiamano sviluppo sostenibile.
Alla Scuola IUSS educhiamo gli allievi al pensiero complesso, all’integrazione del sapere, all’innovazione culturale che deve diventare la preparazione di coloro che decideranno il futuro delle prossime generazioni. È questa la società che vorrei.
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